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LA FAMIGLIA DI PEEPING TOM SPIEGATA DA YI-CHUN LIU

Il pubblico di Torinodanza ha assistito alle creazioni della Peeping Tom, l’acclamata compagnia belga fondata da Gabriela Carrizo e Frank Chartier, che per la prima volta presenta in Italia la trilogia della famiglia. In tre serate abbiamo visto Vater(padre), Moeder(madre) e Kind(Figlio) a testimoniare la lunga ricerca con cui la Peeping Tom ha esplorato i più inquietanti meccanismi che governano i nuclei familiari dei nostri tempi.

Tra rappresentazione della realtà così come è e vivificazione di una fantasia evasiva, tra il concreto della vita e l’astratto dei sogni la ricerca coreografica condotta ha portato alla formazione di una danza surrealista, a una chiara drammaturgia che si avvale di una personale visione della scena e del suo utilizzo. Ma come un coreografo riesce a produrre un’opera danzata? Qual è il lavoro di inscrizione corporea che si effettua coi danzatori? Tutto questo ci viene spiegato da Yi-chun Liu.

Classe 1985, originaria di Taiwan, Liu inizia il proprio percorso di formazione artistica alla tenera età di 5 anni studiando la tecnica marziale del Kung-fu e avvicinandosi allo studio del balletto, della danza contemporanea e proseguendo con le analisi dell’improvvisazione, della Martial Arts e del Tai-Chi-Dao-In. Entrando nella compagnia Peeping Tom nel 2013 ha partecipato alla creazione di Vader come anche nelle successive due creazioni della trilogia nel 2016 e del recentissimo Kind.

Questa volta però Liu viene invitata dai danzatori del Balletto Teatro di Torino e dagli allievi della scuola per analizzare assieme i personaggi delle tre pièce, caratteri molto diversi tra loro seppur frutto dell’ingegno di un unico coreografo.

“Certo è che anche i danzatori hanno partecipato attivamente alla genesi e costituzione di questi caratteri”, afferma la danzatrice “eppure non posso spiegarvi il processo e la danza pensata che abbiamo pensato, creato e proposto; quello che posso fare e raccontarvi come io l’ho vissuta, quello che ho imparato e quello che mi è stato trasmesso”.

Dalle parole di Liu emerge l’immagine di un prodotto collettivo, un processo creativo che trova scaturigine dalla ricerca di figure, immagini e idee. A prevalere sono quelle costrittive che limitano i danzatori – “come esseri intrappolati nella carnalità corporea. Vedere solo uno spiraglio … una finestra, forse posta un po’ troppo in alto … non si può raggiungere”.

La ricerca di un movimento significativo procede inoltre con la coesistenza di due dimensioni, quelle che la forma del teatro per sua natura richiede sia presenti: una è data della scena, fisica e reale, l’altra è costituita dall’immaginario mentale, da forme e situazioni che risiedono nella mente degli esecutori. I danzatori studiano il “cosa possono dare” e “come posso agire” nell’ambiente creato dai coreografi. La realtà dei danzatori si presenta molto più ampia e dettagliata rispetto a quello che il pubblico riesce a percepire eppure è proprio questa dimensione immateriale che dona significato allo spazio fisico della scena che si fa simbolo vuoto da riempire di senso.

Il workshop proposto da Liu di Dance Physical Theatre ha cercato di spiegare questa filosofia di costruzione artistica. Sentire lo spazio che ci circonda e che abitiamo, i suoi colori e i suoi suoni. Conosciamo gli attori che con noi condividono la “scena dalla sala”? Imponiamoci dei limiti, delimitiamo il nostro spazio di azione: è un cubo. La testa e piedi sono i limito del corpo.

Procede così una ricerca personale: dal limite al movimento, dallo sguardo alle motivazioni o sviluppo intenzionale … l’effetto emozionale arriva da una sensazione fisica o da uno stato d’essere. “Così facendo l’azione che agiremo non sarà mai attoriale ma naturale”.

iLOVE

Le città, per loro natura, si modificano, evolvono e mutano il loro aspetto esattamente come fanno le società che le abitano. Da questa naturale tendenza è nata la volontà di ri-creare e far risplendere nuovi “spazi” culturali che ospitassero le creatività di oggi e del futuro. Tre zone periferiche di Torino si sono unite per riqualificare luoghi che risultavano insoliti e inconsueti per ospitare l’arte e il teatro. Fra questi troviamo bellARTE, un teatro sorto all’interno di una fabbrica tessile dismessa e gestito dal 2006 dall’associazione Tedacà. BellARTE, insieme a Cubo Teatro e San Pietro in Vincoli Zona Teatro, sono luoghi di incontro e dialogo, ma soprattutto si propongono come fonte di stimolo per affrontare e indagare i temi del quotidiano e del nostro sistema sociale: un “fertile terreno” da coltivare per far crescere nuove risorse culturali e artistiche. Nel programma dei tre teatri si presentano numerose opportunità per incontrare artisti di grande levatura nazionale, ma anche emergenti giovani promesse, in una dimensione di vicinanza che genera una cifra comunicativa immediata e diretta.
Il 31 marzo, in linea con la poetica e la ricerca sociale che si è andata a costituire, al Teatro bellARTE è stato presentato il duetto iLove di Fattoria Vittadini. Questa Compagnia estremamente eterogenea, è nata a Milano qualche anno dopo rispetto allo spazio bellARTE, nel 2009, dalla volontà di undici giovani (ex)allievi del corso di teatro danza della nota scuola milanese Paolo Grassi, cerca di sviluppare una ricerca personale e una poetica che spazzi all’interno della molteplice pluralità linguistica dell’arte scenica dei nostri tempi. Fattoria Vittadini è riuscita nel giro di pochi anni a conquistare l’attenzione della critica proprio per i suoi segni distintivi che hanno la capacità di avvicinare sempre nuovo pubblico a lavori artisticamente elevati e di forte impronta sociale.
Il tema presentato alla Città di Torino con il duetto iLove non risulta particolarmente innovativo: una coreografia autobiografica che parla di un amore e nella quale due personaggi si ritrovano a condividere lo stesso spazio, inizialmente lavorativo, successivamente esteso alla sfera intima e privata. “L’amore è come questo viaggio in treno. Ci si lascia e ci si ritrova …” e proprio così i due performer si incontrano, si indagano l’un l’altro, si presentano e iniziano un viaggio di condivisione. Cercano loro stessi e la propria identità, studiano la loro relazione e l’affetto reciproco che li sovrasta. I due performer non vanno mai ad annullarsi ma proprio l’unione delle loro personalità fa emergere caratteristiche individuali e strettamente personali: uno si presenta come un personaggio dai gesti chiari e decisi, che a partire dalla lingua dei segni (LIS) espande il proprio essere verso il compagno, l’altro, più introverso, proietta sé stesso in continui slanci solistici pur ricercando un legame corporeo verso l’altro.
A prima vista risulta inconsueto per il Teatro bellARTE ospitare all’interno della propria stagione di ricerca uno spettacolo come iLove. Ma in scena ci sono due uomini a presentare il loro legame amoroso al pubblico. Un amore fra due uomini? Un amore omosessuale è il tema di questo splendido duetto? Due persone dello stesso sesso, nella società odierna ormai definita evoluta, possono condividere lavoro, vita privata e sentimentale? Non per questo sono meno uomini e meno umani. Questa è l’indagine analizzata e presentata dai due giovani danzatori, Cesare Benedetti e Riccardo Olivier. La loro proposta scenica si presenta come una danza fortemente astratta che esalta la potenza del segno per portare agli occhi dello spettatore un’analisi sul significato dell’essere uomini “maschili”. Sono queste forse, come molte altre espressioni, etichette con cui i danzatori giocano in una scena spoglia.
Questo duetto è nato quando ancora Cesare e Riccardo erano una coppia; poi si sono separati continuando a condividere la sfera lavorativa. Il risultato di questa relazione è stato proprio questo elegante duetto che tocca la sensibilità del pubblico sul tema dell’individualità nella coppia e dell’amore maschile.
ILove si apre con la coppia sul palco in ombra. La loro vicenda si muove a ritroso: si sono già separati e al centro della scena, sotto un cono luminoso, campeggia un ortaggio: un finocchio. La prima e breve sezione è ricca di gesti che sottolineano l’attuale lontananza e separazione ma poi, come in un flashback cinematografico, tutto ricomincia dal principio e quello a cui assistiamo è il ricordo dei primi momenti assieme, gli attimi più felici condivisi in coppia. L’importanza degli sguardi con il pubblico e che i due si scambiano l’uno per l’altro costituiscono un elemento di forte persuasione e seduzione. Proprio da uno sguardo nasce il duetto, che pur giocoso nasconde le difficoltà tecniche come anche la difficoltà del vivere assieme. Vestiti con pantaloni e felpe i due performer si presentano come ragazzi qualunque che iniziano a giocare tra loro.
Segue un momento conviviale, intimo, un esilarante quanto serio attimo che raffigura un fugace pasto consumato assieme, dove il finocchio dell’incipit torna in scena per venire divorato dai danzatori. L’azione avviene vicino a un microfono sul proscenio, rendendo a tutti i presenti udibile il rumore dei morsi. Subito i due uomini si spogliano, sottolineando come l’abito è solo una parte di ciò che realmente siamo. Si diffonde una sensazione di smembramento e di incomunicabilità: assistiamo al progressivo allontanamento di Cesare dalla relazione creatasi, mentre Riccardo diviene “appiccicoso”, quasi morboso nel seguire il partner. La rottura finale è inevitabile e commovente: non aleggiano parole, non ci sono insulti e scontri, ma solo un senso profondo di tristezza, solitudine e vuoto.

Matteo Ravelli

Regia, Coreografia, Colonna sonora
Cesare Benedetti, Riccardo Olivier
Light design
Roberta Faiolo, Giulia Pastore
Direzione Tecnica
Giulia Pastore
Produzione
Fattoria Vittadini

Lo spettacolo è parte della rassegna di danza Il Corpo Racconta e della rassegna Amor Novo di Fertili Terreni Teatro, il progetto di Acti Teatri Indipendenti, Cubo Teatro, Tedacà, Il Mulino di Amleto dedicato alla drammaturgia contemporanea e al teatro di innovazione. Realizzazione in collaborazione con Associazione Quore, Arcigay, Queever e progetto "Omofobia. No Grazie"

IL CORPO SUSSURRANDO – trittico del corpo

Quando si entra a teatro ci si aspetta sempre di divertirsi, di rimanere impressionati dall’evento, di esserne coinvolti emotivamente. Non sempre però ai nostri tempi questo accade quando si ha a che fare con uno spettacolo di danza, disciplina che spesso viene proposta a livello dilettantistico e di cui si è purtroppo perso il valore artistico e culturale. Ebbene, giovedì 28 febbraio presso il Teatro Astra abbiamo potuto assistere a un nuovo appuntamento del cartellone Palcoscenico Danza 2019, rassegna diretta da Paolo Mohovich e dedicata alla danza contemporanea. Se siete tra coloro che hanno perso la concezione di cosa significa usare il proprio corpo per creare una vera e proprie opera d’arte, muovere il proprio corpo per trasmettere messaggi, usare lo spazio per produrre riflessioni … avreste dovuto esserci! Ritrovarsi a sognare ad occhi aperti, essere presenti nel momento in cui i performer attraverso la propria fisicità, la potenza e al contempo la loro delicatezza ci mostrano una storia, un oggetto immateriale, una sensazione. Rendere visibile una sensazione è forse uno dei fini più complessi e difficili che gli artisti di teatro hanno sempre cercato di raggiungere.

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PROVE D’AUTORE

La Lavanderia a Vapore di Collegno è la prestigiosa Casa della Danza della Regione Piemonte, luogo di sperimentazione nel quale l’arte coreutica si presenta come motore portante di un’intensa attività relazionale, che coinvolge non solo il territorio limitrofo ma si apre anche a molte altre realtà nazionali e internazionali. Ispirandosi al libro Quello che ci muove. Una storia di Pina Bausch dell’autrice Beatrice Masini, QUELLO CHE CI MUOVE è anche il titolo dato alla rassegna di alcune proposte della stagione 2018/2019. L’obiettivo è quello essere fonte d’ispirazione per tutte le attività che vedono la propria centralità non solo in quello che è stato ma soprattutto in quello che sarà, un itinerario della memoria, partendo dal ricordo dei lavori della famosa coreografa e danzatrice Pina Bausch, e un’esplorazione dei temi della creazione contemporanea. Lo sguardo degli spettatori viene dunque condotto non solo verso il passato ma anche verso il “terzo paesaggio della danza”, quello formatosi come “residuo” di una scena ufficiale che tutela la tradizione e che si configura come “luogo di conservazione”, e si distanzia dal “secondo paesaggio”, luogo di incontro tra “nuovo o meno nuovo [..], in cui i linguaggi conosciuti e leggibili anche da un pubblico relativamente ampio creano nuove suggestioni”. Continua la lettura di PROVE D’AUTORE

LA DANZA FRA MICHELA LUCENTI E IL DIAVOLO

“La verità fa sempre male, anche se è una falsa verità”. È questa la lezione che ci è stata impartita e che deve essere assimilata per poter affrontare le avversità della vita, qualunque esse siano, anche quando sono in gioco magie oscure e diaboliche. In fondo abbiamo assistito “alla storia di un mago, che per definizione altro non è che un attore il quale finge e interpreta tale ruolo; ma anche alla storia del Diavolo, che altro non è che un mago […]”.

La citazione, tratta dal capolavoro letterario di Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita, introduce queste note sullo spettacolo dalla struttura complessa cui abbiamo assistito, una scrittura scenica nata dall’incontro del regista Emanuele Conte con la coreografa Michela Lucenti. Il lavoro, prodotto dal Teatro della Tosse in collaborazione con Balletto Civile per le scene genovesi dello scorso anno, è stato ospitato presso l’Astra di Torino all’interno del cartellone di Palcoscenico Danza 2019.

Grazie alla presentazione del personaggio del Diavolo che, rievocando le parole del Faust di Goethe, si presenta come “[…] parte di quella forza che eternamente vuole il male ed eternamente compie il bene”, viene proposta sin dal principio una chiave di lettura e una sintesi di ciò che si andrà ad assistere: sarà proprio questo personaggio demoniaco il motore di tutto il racconto. Probabilmente, questo preambolo introduttivo ha aiutato anche gli estimatori più acuti del testo di Bulgakov a comprendere uno spettacolo connotato da un forte surrealismo.

“Questo è uno spettacolo che contiene un altro spettacolo che parla di raggiri, di frodi e di bugie”: queste le parole che hanno annunciato l’inizio di una pièce dai toni grotteschi, giocata su diversi livelli registici per narrare vicende ambientate in differenti tempi narrativi e dislocate su tre piani distinti, ovvero, lo spazio del palcoscenico nascosto dietro un sipario vermiglio, il proscenio, circoscritto da una fila di finti lumi, e la platea.

Singolare e apprezzata è stata la scelta di accogliere il pubblico in sala con la musica di un abile pianista, che si scoprirà essere un fedele seguace demoniaco. Attraverso le animazioni video, realizzate sapientemente da Paolo Bonfiglio, abbiamo preso parte a un cortometraggio nel quale sono stati usati dipinti a olio animati per rappresentare la storia di Ponzio Pilato, vicenda cuore del libro scritto dal personaggio de Il Maestro. Questo ingresso sembra evocare il cinema tedesco espressionista, coi suoi toni bicromatici e volutamente sperimentali.

Anche l’arte della Lucenti mostra un chiaro richiamo alle avanguardie storiche; per l’occasione la coreografa ha prodotto una danza essenziale, basata su pochi gesti codificati e su presenze di corpi volumetrici, studiatamente densi, ma al contempo leggeri ed eterei. Sottratte dal contesto spettacolare in questione, alcune coreografie sarebbero parse pure rievocazioni degli Anni Ruggenti e di un periodo spensierato e indimenticabile, altre si sarebbero potute definire composizioni astratte, dove la presenza attoriale è sublimata da disegni geometrici scomposti e ricercati.

In linea con la chiave stilistica, il regista ha voluto moltiplicare gli spazi, eliminando non solo la quarta parete, portando al di fuori del boccascena danze e azioni e avvolgendo il pubblico, ma ricercando anche l’abbattimento della quinta, quella parete metafisica che ci separa da un mondo di idee e di spirito. Unite dalla musica, le scelte registiche e i disegni coreografici hanno cercato dunque di condurre il teatro verso una nuova linea di ricerca, un nuovo sentiero, forse non ancora abbastanza esplorato e discusso, volto non soltanto ad avvicinare l’uomo alla rappresentazione teatrale, inglobandolo nell’azione, ma conducendolo verso un mondo immateriale, fatto di pensieri e riflessioni.

Certo è che la danza, senza la parola, non sarebbe stata compresa appieno. Ciò non deriva da una carenza espressiva delle coreografie o dei suoi interpreti, i quali, al contrario, si sono dimostrati abili seduttori visivi e tecnicamente preparati, bensì da un pubblico non più avvezzo a un’arte sperimentale e avanguardistica, sicuramente non facilitato dall’assuefazione a tutte le immagini stereotipate con cui quotidianamente convive. Nonostante questo, la Lucenti riesce a conquistare il pubblico, sfruttando una coscienza profonda della danza, del teatro e dei suoi meccanismi di interazione con lo spettatore.

Recensione a cura di Matteo Ravelli

Testo: Emanuele Conte ed Elisa D’Andrea,
liberamente ispirato al romanzo di Michail Bulgakov
Regia: Emanuele Conte e Michela Lucenti
Coreografie: Michela Lucenti
Assistenti alla regia: Alessio Aronne e Ambra Chiarello
Con: Andreapietro Anselmi, Fabio Bergaglio,
Maurizio Camilli, Pietro Fabbri, Michela Lucenti, Marianna Moccia, Alessandro Pallecchi,
Stefano Pettenella, Gianluca Pezzino,
Paolo Rosini, Emanuela Serra, Giulia Spattini
Impianto scenico: Emanuele Conte 
Animazioni video: Paolo Bonfiglio
Costumi: Chiara Defant
Luci: Andrea Torazza
Musiche: Tiziano Scali
Pianoforte e musiche originali: Gianluca Pezzino
Produzione: Fondazione Luzzati /
Teatro della Tosse e Balletto Civile

 

ONE BLOOD FAMILY

E LE RESIDENZA TRAMPOLINO DI COLLEGNO

Un nuovo progetto triennale vede coinvolta la Lavanderia a Vapore di Collegno, centro di residenze coreografiche che da 4 anni mette a disposizione i propri spazi per sperimentazioni e ricerche nel campo dei differenti linguaggi della danza contemporanea. In linea con il nuovo decreto ministeriale si propone un nuovo dispositivo in aperto dialogo con il territorio torinese attraverso residenze, che prendono non a caso l’appellativo di Trampolino, con lo scopo di sostenere e guidare lo sviluppo artistico di alcune progettualità individuate e selezionate nel corso del 2018.

Il 16 dicembre scorso abbiamo assistito alla prima restituzione pubblica di una di queste: il gruppo One Blood Family ha prodotto una coreografia che verrà nei prossimi mesi utilizzata all’interno del nuovo videoclip musicale del gruppo. One Blood Family, costituitasi solo un anno fa, accoglie nel suo organico alcuni giovani profughi provenienti da paesi africani e arrivati in Italia in cerca di asilo internazionale presso Villa5 di Collegno, una casa allestita a centro di accoglienza gestita dalla Cooperativa Atypica. I ragazzi di One Blood Family sono stati coinvolti nella prima Residenza Trampolino e hanno condiviso un progetto di ricerca coreografica con alcune allieve selezionate provenienti dalle scuole amatoriali di danza con cui la Lavanderia è solita collaborare. Al fine di una buona riuscita artistica si è potuto contare sul prezioso contributo del coreografo Jérôme Kaboré della Compagnie Wendinm, selezionato e proposto della direzione di TorinoDanza Festival, e dell’assistenza di Simona Brunelli, generando così un percorso che ha visto l’accostamento e la fusione di diversi linguaggi artistici: musica, canto e danza.

Quello a cui abbiamo assistito è stato dunque una restituzione di una sperimentazione linguistica nella sua prima stesura, composta da una nomenclatura prodotta dall’accostamento di codici differenti che non trovano ancora una loro omogeneità ma che al contempo trovano molti punti di raccordo. In particolare, emerge una volontà di far risaltare ogni singolo preformar e di dare forma corporea, e talvolta sonora, ai pensieri e alle storie degli artistici coinvolti. A Simona Brunelli va attribuito il lavoro guida dei neo danzatori mirato all’assimilazione e al perfezionamento dei passi. Un lavoro grezzo che nella sua abbozzatura fa trasparire un alto potenziale per la creazione di una nuova espressività che integra culture lontane ma non così distanti.

Recensione a cura di Matteo Ravelli

 

Coreografo Jérôme Kaboré
Assistente alla coreografia Simona Brunelli
Danzatrici Silvia Di Monda, Alessandra Fumai,
Emanuela Pennino, Letizia Turchi
Musicisti e cantanti Seedy Badjie, Sanna Bayo,
Ebrima Saidy, Gilbert Dah, Keba Ndiaye, Adama Ndow, Giorgio Benfatti, Gabriele Concas, Matteo Marini,
Simone Pozzi, Manuel Volpe
Sound concept a cura dell’Associazione
Culturale Spazio Rubedo
Riprese video Giorgio Blanco

In collaborazione con TorinoDanza Festival e Teatro Stabile di Torino